Assistenza domiciliare. Nuovo modello di welfare ma anche espressione della “carità in uscita”
In Italia le cure domiciliari sono ancora un miraggio. Eppure sarebbero una risposta di qualità e a costi contenuti alle esigenze degli oltre 2.500.000 anziani non autosufficienti del nostro Paese cui si aggiungono disabili e malati cronici gravi. Servono linee guida programmatiche e modelli flessibili. Monsignor Andrea Manto: "Occorre fare rete". Monsignor Enrico Feroci: "Domanda sanitaria e sociale sempre più complessa"
Fare rete. Solo così è possibile uscire dall’autoreferenzialità; creare una mentalità nuova per un cambio di passo nell’assistenza ai malati; combattere la solitudine dei pazienti, delle loro famiglie e degli operatori; sollecitare la politica; far dialogare “il linguaggio della solidarietà con quello della scienza e dell’organizzazione sanitaria”. Non ha dubbi monsignor Andrea Manto, direttore del Centro pastorale sanitaria e incaricato per la pastorale familiare del Vicariato di Roma, che ha concluso il convegno “Misericordia a domicilio. Le cure domiciliari, paradigma di una ‘carità in uscita’ e di un modello innovativo di welfare”, tenutosi nella capitale per iniziativa del Centro pastorale, della Caritas diocesana e dell’ Istituto superiore di sanità (Iss). A tracciare i lineamenti dell’odierna “domanda sociale e sanitaria sempre più complessa” è in apertura monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas, che chiede capacità di aggregazione su questi temi perché la solidarietà diventi “esperienza partecipata”.
O in ospedale o abbandonati a se stessi. L’assistenza domiciliare integrata è un punto fondamentale nell’organizzazione assistenziale delle aziende sanitarie, eppure il sistema è ancora poco diffuso e quasi ovunque nel nostro Paese predomina il ricorso ai ricoveri ospedalieri spesso non necessari e molto onerosi per un Sistema sanitario nazionale che Walter Ricciardi, presidente dell’Iss, definisce “grosso patrimonio” da salvare, soprattutto “per le troppe persone abbandonate a se stesse”.
“Se non ce la facciamo pagheranno quelli che non hanno voce”, avverte richiamando i 5 milioni di italiani sotto la soglia della povertà assoluta, i progressivi tagli della spesa sanitaria, il clientelismo e la corruzione che “privano di garanzie i cittadini”.
E i numeri li fornisce Giuseppe Milanese, presidente Operatori sanitari associati (Osa) Roma:
in Italia sono almeno 2.500.000 gli anziani non autosufficienti, un terzo dei quali vive da solo, e l’assistenza domiciliare, dedicata solo a un quinto di loro, è mediamente di 22 ore l’anno mentre dovrebbe essere almeno di 8 ore a settimana (è di 28 ore in Germania).
A Roma ne viene assistito a casa solo lo 0,9% ma “con gravi differenze da zona a zona”. Per Milanese servono cinque “erre”: regia unica, regole certe, ruolo per gli attori del sistema, rete tra gli operatori e rigore nella misurazione della qualità dei servizi. A dare le coordinate concrete dell’assistenza domiciliare, dove “l’operatore diventa chiave di garanzia dei diritti dell’assistito”, è Leopoldo Grosso, vice presidente del Gruppo Abele, che parla di percorsi “spesso impervi”. Parole chiave: osservare, prospettare e progettare insieme coinvolgendo i diversi servizi.
Modello flessibile. Sono 16.350 gli interventi domiciliari effettuati dalla Caritas romana nel 2015, ha detto Massimo Pasquo, responsabile assistenza domiciliare sociale e sanitaria dell’organismo ecclesiale . Quattrocento i destinatari di 5.500 interventi medico-infermieristici a favore di anziani e malati di Aids, e di 11mila interventi di “assistenza domiciliare leggera” (alimentare, compagnia, accompagnamento a visite mediche). Forte la “sofferenza relazionale e affettiva”. Nel Lazio – spiega Nicoletta Orchi, responsabile Centro di coordinamento per i trattamenti a domicilio (Cctd), Inmu Lazzaro Spallanzani, di Roma – si registrano 2,1 casi di Aids per 100mila abitanti, prima regione in Italia, la metà dei quali gravita su Roma”. L’ospedale visita il paziente e individua il servizio di assistenza più adatto. “Dalle quasi 600 richieste di assistenza domiciliare a metà anni 90 oggi ne abbiamo poco più di 100 l’anno e attualmente assistiamo circa 400 pazienti”. Per questo nel 2001 è stato studiato un modello più “leggero” ma che deve tenere conto della “comorbilità” – epatite cronica, neoplasie, malattie renali, patologie psichiatriche – e dell’aumento dell’età media dei malati (50 anni).
Welfare di comunità. Dai lavori emerge la necessità di un modello di assistenza flessibile, di linee guida programmatiche a medio-lungo termine, di una maggiore fluidità dei sistemi autorizzativi e di accreditamento.
L’orientamento è quello delle “progettualità territoriali”, nell’ottica di un welfare di comunità che coinvolge cittadini, volontari, operatori di quartiere.
E non mancano buone pratiche come il progetto “Quartieri solidali” che la Caritas porta avanti da anni a Roma con soggetti istituzionali, del privato sociale, del volontariato di territorio, delle parrocchie, e alcune sperimentazioni in atto di “domiciliare leggera” rivolta a malati di Sla, psichiatrici o con Aids. Insomma, passare dal ‘curing’ al ‘caring’ si può.